Come ormai tutti sapete, oggi è il Fertility Day tanto voluto dalla nostra Ministra della Salute Beatrice Lorenzin. La campagna ha fatto molto discutere soprattutto per le pubblicità più che per i contenuti in se. Il Ministero della Salute fa bene a mettere a fuoco i rischi dell'infertilità, ma dovrebbe farlo più per una questione di salute pubblica che per una propaganda delle nascite come si faceva durante il Ventennio. C'è stato un vero e proprio corto circuito comunicativo.
La situazione era così assurda che discutendo con una amica su FB, è venuta fuori una situazione ipotetica sul controllo delle nascite da parte dello Stato che mi ha fatto pensare: questa situazione potrebbe essere uno spunto per un racconto distopico.
Ne ho parlato con Mattia, molto più avvezzo di me alla distopia, e in tempi brevi lui mi ha scritto un breve, ma intrigante racconto, dedicato proprio al Fertility Day e pubblicato in esclusiva proprio sul mio blog.
Buona lettura!
Ventidue Settembre
Mentre scrivo queste parole, sento il
bimbo muoversi nella mia pancia. Sembra quasi ansioso di nascere: del resto
mancano ormai pochi giorni alla data stabilita. Sono già in ansia per il parto,
ma quando sento questi movimenti mi sento sollevata, e sono sicura che nulla
possa andare male.
A volte però mi capita di pensare con
angoscia che se le cose fossero andate diversamente quel giorno io non sarei
qui, e il mio bimbo non starebbe per nascere. Ripenso in particolare a quel
ventidue settembre in cui la mia vita è cambiata per sempre.
La notte precedente avevo dormito
giusto poche ore. Era stato un sonno agitato: dopotutto, sapevo già cosa mi
aspettava il giorno successivo. Ciò di cui avevo meno bisogno era un risveglio
brusco, ma come sempre a mia madre non importava.
«Dai Aurelia, non fare la pigrona! Giù
dal letto!» disse, mentre entrava in camera mia e apriva di colpo la serranda,
facendomi sobbalzare.
«Che palle, ma’. Non puoi lasciarmi in
pace?» biascicai, confusa.
«Scherzi, vero? Vuoi dirmi che non ti
ricordi nemmeno che giorno è oggi?»
«Certo che mi ricordo.»
«E allora che aspetti? Muoviti, dai,
non vorrai far tardi proprio in un’occasione così importante!»
«No, no.»
«Bene. E comunque, buon diciottesimo
compleanno, tesoro.» concluse lei, prima di andarsene in cucina a preparare la
colazione. Quando fu uscita, d’istinto mi accarezzai la pancia, un po’ come
faccio adesso: allora però era l’ansia a guidarmi.
“Sarà una lunga giornata” pensai,
prima di alzarmi.
Del tragitto da casa all’ospedale
ricordo poco: ero troppo immersa nei miei pensieri per far caso al resto.
L’unica cosa chiara era il mio stato d’animo, così pesante e abbattuto. Mi
sentivo solo io così: mio padre alla guida chiacchierò per gran parte del
viaggio con mia madre, ed entrambi sembravano felici.
In compenso, mi ricordo bene le tante
analisi a cui mi sottoposero una volta giunti a destinazione. Per oltre due ore
rimasi in una saletta medica, al centro dell’attenzione di varie persone in
camice bianco che mi controllavano la pressione, mi prelevavano il sangue – molto
sangue – e usavano su di me i macchinari che avevano a disposizione per
scandagliare il mio ventre. Ricordo poi il dolore che mi causò l’asportazione
del microchip che mi era stato inserito sotto la pelle un anno prima, per
monitorare i miei parametri. Ma soprattutto ricordo l’imbarazzo e il fastidio
estremo degli esami più intimi a cui mi sottopose il ginecologo – un uomo
anziano, forse alla soglia della pensione –mentre sedevo seminuda sulla sedia
apposita al centro della sala, con tutti i presenti fissi a guardare il mio
inguine. In quei momenti pensavo che non ci potesse essere nulla di peggio: oh,
come mi sbagliavo!
Dopo essere uscita dalla sala medica,
la prassi richiedeva di aspettare i risultati degli esami sul posto. Rimasi così
nella sala d’attesa in compagnia dei miei genitori. Fu un vero incubo: la
mezz’ora in cui restai lì seduta sembrò durare un’eternità, e mia madre che cercava
di attaccare bottone non fece che peggiorare la situazione.
Fu quasi con sollievo, quindi, che
accolsi l’arrivo dell’infermiere col responso. Fu però la sensazione di un
attimo, poi l’angoscia tornò a tormentarmi.
«Allora, quali sono i risultati?» gli
chiesi, secca.
«Ho ottime notizie per lei, signorina Bianchi.
Le sue analisi sono perfette: per questo, il calcolatore medico le ha assegnato
il livello massimo nella scala riproduttiva, A+! Congratulazioni!»
«Oh…» fu tutto quello che riuscii a rispondere,
totalmente raggelata, mentre i miei genitori esultavano.
«Fate bene a essere entusiasti,
signori Bianchi. Vostra figlia è veramente eccezionale: sono pochi i casi in
cui nella stessa persona convivono livelli adeguati di ormoni, una forma
perfetta dell’utero e delle anche, mestruazioni regolari, una predisposizione
scarsissima per le malattie genetiche, e altri parametri fisiologici così
perfetti.
«Insomma, il suo futuro è pieno di
figli e figlie sani e belli, che contribuiranno al benessere e alla grandezza
dell’Italia. Quindi sì, questa è una bellissima notizia.» concluse, con un tono
e un sorriso che mi diedero il voltastomaco.
«Oh, Aurelia, io e tuo padre siamo
così fieri di te.» aggiunse mia madre abbracciandomi, aumentando ancor di più
il mio disgusto.
«Quindi, ora che succede?» chiesi
all’infermiere con un filo di voce. Cercai di non esternare le mie emozioni, ma
dubito di esserci riuscita
«Come lei sa, signorina Bianchi, a
tutti i privilegiati di livello superiore a B+ la legge italiana impone il
matrimonio con un altro di pari livello. Sarà perciò il calcolatore medico a decidere
il suo compagno ideale, in base a fattori come età, compatibilità genetica o gruppo
sanguigno, ma anche gusti sessuali dei candidati maschi di livello A+. Per elaborare
i dati però ci vuole un po’ di tempo. Per questo lei dovrà tornare qui domani,
nel primo pomeriggio, per conoscere il nome del suo futuro marito.»
«E se io non volessi?» sussurrai,
quasi senza pensarci.
«Come prego?» fece l’infermiere,
troppo lontano per sentirmi.
«Ma che dici, stupida! Stai zitta, che
ti viene in mente?» disse mia madre, fulminandomi con uno sguardo.
« Non ci faccia caso, dottore, è stata
una giornata stressante: è per questo che Aurelia è un po’ strana.» continuò
quindi. Mia madre scambiò ancora qualche battuta con l’infermiere, poi si salutarono
e andammo verso l’uscita. Percorsi quel breve tragitto in bambola, senza capire
più nulla; poi entrai in macchina, e la chiusura della portiera mi risvegliò. In
quel momento, realizzai di essere in trappola, e mi sentii come una condannata
a morte con un solo giorno rimasto prima dell’esecuzione.
“Che schifo di vita” pensai, mentre
l’auto si metteva in moto.
Quando tornai a casa ero ancora più
angosciata, ma non per questo mi sentivo sconfitta, anzi. Durante il viaggio di
ritorno, un‘idea si era fatta largo in me, ed ero determinata a realizzarla.
Non era mia, del resto: era stato Scipione a mettermela in testa. Già, il mio
Scipione: ancora dopo tanto tempo, continuo a pensare a lui. Se chiudo gli
occhi, riesco ancora a vedere il suo viso dai lineamenti perfetti, i capelli
lunghi, che amavo accarezzare, e i suoi muscoli possenti. E poi rivedo il primo
bacio che gli ho dato, e le tante ore passate insieme in intimità, e la prima
volta che abbiamo fatto l’amore – la mia prima volta in assoluto.
Ci amavamo così tanto io e Scipione,
ma su una cosa non eravamo d’accordo. Lui avrebbe voluto portarmi via
dall’Italia e trovare un posto dove avremmo potuto vivere la nostra relazione
alla luce del sole. In particolare, Scipione mi aveva parlato con toni
entusiastici della Spagna, dove aveva alcuni amici che ci avrebbero aiutato ad
ambientarci meglio. Io però ero restia a lasciare la mia casa: significava
anche abbandonare famiglia e amici, il che non mi sembrava accettabile. O
almeno così era fino a quel ventidue settembre, quando realizzai che l’Italia
faceva schifo proprio come diceva lui.
Così, la prima cosa che feci una volta
arrivata a casa fu chiamarlo con il videofonino. Fu una conversazione breve: lo
pregai semplicemente di venire da me per discutere.
Dieci minuti dopo era già a casa.
Aveva fatto la strada di corsa: dalla videofonata si era accorto che qualcosa
non andava, nonostante io avessi cercato di nasconderlo.
«Che succede?» mi chiese, dopo avermi
salutato con un bacio. In quel momento, la mia tensione si sciolse in lacrime.
Piangendo, gli raccontai ciò che era successo quella mattina.
«Dai, calmati. Andrà tutto bene,
vedrai.» disse lui alla fine del mio racconto, abbracciandomi.
«Ma come faccio a calmarmi? Sono un
A+! Ti rendi conto di quel che significa?»
«Certo. Che lo stato ti impone un
minimo di dieci figli, mentre non hai un numero massimo come le categorie sotto
alla B.» fece lui, col suo solito tono da saputello. Mi irritai un po’, ma
decisi di lasciare correre: sapevo che non lo faceva per prendermi in giro.
«Io pensavo più al fatto che dovrò
sposare uno sconosciuto! Non è terribile?»
«Lo è, sì.»
«Io… mi dispiace di non averti
ascoltato quando mi dicevi di andare via. Ma ora ho cambiato idea. Voglio
scappare con te.»
«Oh. Questa sì che è una bella
notizia. Bellissima, anzi.» sorrise lui. La sua reazione tirò su anche me sul
momento, tanto che smisi di piangere – anche se oggi ripensando a quel momento
sento come una mano che mi stritola lo stomaco.
«Ma possiamo farlo subito? Io non
voglio tornare domani in ospedale, a nessun costo.»
«Stai tranquilla. Avevo previsto che
una cosa del genere potesse avvenire, così ho avvertito alcuni amici
disponibili ad aiutarci. Partiremo questa notte stessa.»
«Davvero hai fatto questo?»
«Sì. Dopotutto è il tuo compleanno.
Meritavi un regalo, no?» fece lui, sorridendo. Mi buttai di nuovo al suo collo
e lo strinsi forte, molto a lungo.
«E poi, una volta partiti, andremo a
vivere in Spagna, dove anche un C- inferiore come me può sposare una A+ senza
problemi.» riprese quindi.
«Non vedo l’ora!» commentai, eccitata
alla prospettiva.
«Bene, allora è deciso. Stasera verso
le undici e mezza verrò a prenderti con gli amici che ci aiuteranno. E poi, la
libertà!»
Rimanemmo ancora un po’ a parlare del
piano d’azione e a scambiarci effusioni. Poi arrivò l’ora di pranzo, e Scipione
dovette tornare a casa.
“Non vedo l’ora che arrivi stasera”
pensai dopo che se ne fu andato. Rimasi per qualche minuto nella mia stanza a
fantasticare, finché non venni chiamata anch’io a tavola.
Nonostante i miei auspici, il
pomeriggio passò molto lentamente. L’eccitazione che avevo si mescolò con la
preoccupazione che qualcosa potesse andare storto, ma cercai di non lasciarle
prendere il sopravvento. Provai invece a tenere la mente occupata: riempii un
paio di valigie con qualche vestito e le poche cose a cui tenevo veramente, e
scrissi una lettera con cui spiegavo la mia fuga ai miei. Fu abbastanza
difficile: mi dispiaceva davvero lasciare i miei genitori e i miei due
fratellini. Ma se rimanere significava matrimonio forzato, allora non avevo
altra scelta se non andarmene.
Nonostante il mio sforzo per rimanere
serena, dalle dieci l’ansia cominciò a farsi sempre più pressante. Provai a
distrarmi guardando la televisione a realtà aumentata, ma non c’era nulla che
mi interessasse, e non riuscivo a seguire i programmi: la mia testa era
altrove. Il nervosismo divenne sempre più forte, specie quando l’orologio
scattò sulle ventitré e trentuno.
“Dio mio, è successo qualcosa” pensai
allora, angosciata, ma mi preoccupavo troppo. Di lì a cinque minuti il mio
videofonino vibrò: era il messaggio che aspettavo.
Eccitata, raccolsi i miei bagagli e,
cercando di non disturbare il silenzio che regnava in casa, attraversai il buio
fino all’ingresso. Aprii la porta, e mi ritrovai davanti Scipione, insieme a
due sconosciuti.
«Questi sono Petronilla e Diocleziano.
Ci aiuteranno ad arrivare in Spagna.» li presentò lui dopo avermi salutato con
un bacio. Per un attimo, li studiai. Petronilla era una piccola donna bionda dalla
faccia simpatica, mentre Diocleziano era il suo contrario, uno spilungone
dall’aria imbronciata.
«Grazie per il vostro aiuto.» dissi.
«Non c’è di che, cara. Lo facciamo
volentieri.» sorrise Petronilla.
«Allora, andiamo?» disse Scipione,
quasi ansioso.
«Si. Andiamo!» dissi io, entusiasta.
«Fermi!» tuonò una voce alle mie spalle,
che mi raggelò. Subito dopo la luce dell’ingresso si accese, e voltandomi vidi
mia madre a braccia incrociate piantata in mezzo alla sala, il viso contratto
in un’espressione furiosa, quasi animalesca.
«Tu, brutta ingrata!» cominciò a
sbraitare. «Dopo tutto quello che abbiamo fatto per te, vuoi disonorare così la
tua famiglia? Per giunta fuggendo con un C- inferiore come questo? Viziata, sei
solo viziata!»
«Come fai a…» balbettai.
«A saperlo? Mi credi proprio così
stupida? Ho origliato questa mattina, mentre parlavi con questo delinquente.
Non ti permetterò mai di fare una cosa del genere.»
«Aurelia, andiamo!» mi incitò Scipione
alle mie spalle.
«Un attimo solo.» risposi. «Mamma, io
voglio essere libera e felice. Tu forse non puoi capirlo, come non capisci cosa
vuol dire un matrimonio forzato, essendo solo una classe B. Ma non puoi
fermarmi: io vado via.»
«Invece non vai da nessuna parte. Tu
mi credi stupida, ma io non lo sono. Ho chiamato la polizia ben prima che
questi delinquenti venissero alla nostra porta. Dovrebbero essere qui a
momenti.»
«Merda!» urlò Petronilla, mentre
Scipione mi afferrava bruscamente. Per un momento, con la coda dell’occhio,
intravidi il viso di mia madre contrarsi in un sorriso terribile – l’ultima
immagine che ho di lei – poi venni trascinata via.
«Veloci, veloci!» disse Petronilla
correndo verso la macchina, ma era tardi: proprio in quel momento, un’auto
entrò a tutta velocità nel viale alberato in cui abitavamo. Per un attimo
sperai che fosse un passante qualsiasi, poi l’aria esplose in un vortice di
luci bianco-blu e di rumori di sirena, che mi mandò nel panico.
«Merda, troppo tardi.» imprecò
Scipione. Intanto l’auto della polizia si era già messa di traverso davanti a
quella dei suoi amici, e ne erano scesi tre poliziotti.
«Fermi tutti, mani in alto!» ordinò
uno di loro, estraendo una pistola. Spaventata, obbedii, e vidi Petronilla e Diocleziano
fare lo stesso. Scipione però, accanto a me, rimase immobile.
«Che fai?» gli sussurrai,
piagnucolando. Avevo paura che stesse per fare qualche stupidaggine.
«Aurelia.» disse lui a bassa voce, in
un tono solenne che non avevo mai sentito. «Se adesso andrà male, vai avanti
con la tua vita. Ti prego, non rimanere fedele solo a un ricordo.»
“Oddio, che vuoi fare?” feci per
dirgli, ma non riuscii nemmeno ad aprir bocca. Con un gesto rapido, Scipione si
infilò la mano dietro la schiena ed estrasse una vecchia pistola. Subito dopo,
le mie orecchie furono ferite dal fragore degli scoppi.
«Scappate! Scappate!» urlava intanto
Scipione. I suoi colpi colsero al petto uno dei poliziotti, che si accasciò a
terra; gli altri però si rifugiarono dietro a una panchina. Anche Scipione si
nascose dietro a un albero, da dove continuò a bersagliarli.
A quella vista, rimasi paralizzata per
un momento: non sapevo cosa fare, forse nemmeno cosa pensare. Probabilmente
sarei rimasta lì fino alla fine della sparatoria, se Diocleziano non mi avesse
tirata su di peso e caricata a forza in macchina.
«Che stai facendo? Scipione!» gli
urlai, ritrovando la voce, mentre mi sbatteva la portiera in faccia.
«Non c’è tempo. Se la sa cavare,
vedrai che andrà tutto bene.» gridò Petronilla tutto d’un fiato, dal posto di
guida. Subito dopo, accese il motore, e con una brusca manovra in retromarcia invertì
la direzione. Mentre l’auto si raddrizzava, mi girai all’indietro per cercare Scipione
con lo sguardo.
Era ancora dietro l’albero, ma
sembrava in difficoltà. Con sgomento, mi accorsi che perdeva sangue da una
ferita alla spalla. In quel momento, il tempo sembrò perdere di significato.
Come al rallentatore, lo vidi sparare ancora un colpo. Poi, d’improvviso, il
petto gli esplose in una nuvola rossa, proprio al centro.
Sorpreso, Scipione si guardò nel punto
in cui era stato colpito. Poi, chissà per quale motivo, si girò verso l’auto. I
suoi occhi si fissarono nei miei, e ci lessi una sofferenza infinita. Forse me
lo sono solo immaginato, vista la distanza, ma in quel terribile momento mi
sembrò così. Fu solo un attimo, comunque: subito dopo Scipione finì riverso a
terra.
«No! No! Scipione! No! Scipione!»
urlai, disperata. Intanto l’auto stava prendendo velocità, ma vidi lo stesso
uno dei poliziotti avvicinarsi al mio amante a terra e sparare ancora. Il mio
cuore perse un colpo, poi la macchina sterzò in un vicolo, togliendomi quella
vista da davanti agli occhi.
«No!» gridai ancora, un urlo lungo e
isterico che mi avvolse del tutto e divenne il mio unico mondo, mentre il resto
si sgretolava e piombava nel buio con la mia coscienza.
Quando ripresi i sensi, mi sentivo
ancora sconvolta, il mondo continuava a oscillare. Sul momento pensai di essere
diventata pazza. Fu solo dopo un po’ che mi accorsi che il movimento intorno a
me era reale. Mi alzai e a tentoni cercai un’uscita nel buio di quella stanza:
alla fine ci riuscii e mi ritrovai all’esterno.
In cielo splendeva un bel sole;
intorno a me, in ogni direzione, si estendeva una distesa blu. Continuai a
guardarmi intorno e mi accorsi che la mia intuizione era giusta: ero proprio su
una barca, lunga e affusolata.
Dopo qualche istante in cui fui
abbagliata dalla luce, riuscii a mettere a fuoco meglio: notai allora che nella
cabina di comando, poco sopra di me, c’erano tre persone. Trovai subito il modo
di salire e le raggiunsi: erano Diocleziano, Petronilla e un uomo al timone che
mi si presentò come Tarquinio.
«Che cosa è successo? Dove siamo?»
chiesi loro, confusa.
«Siamo in acque internazionali, più o meno al
largo della Sardegna. Dobbiamo solo aggirarla: tempo due o tre giorni e saremo
in Spagna.» mi rispose Petronilla.
«E Scipione?» replicai ancora. Li
guardai supplicante, ma né Petronilla né Diocleziano ebbero il coraggio di
rispondermi. La prima abbassò lo sguardo, il secondo mi fissò e scosse la
testa.
«Non può essere! Siete sicuri?» dissi,
alzando la voce, mentre cercavo di ricacciare indietro le lacrime.
«Si.» riprese Petronilla, triste. «I
giornali online riportano la notizia della sua morte. Parlano di una sparatoria
in cui hanno perso la vita sia un poliziotto che un criminale. Mi dispiace
tanto, Aurelia.»
Cercai di lottare con me stessa, per
mantenere un contegno, ma ci riuscii solo per pochi attimi. Poi le mie emozioni
ebbero la meglio, e scoppiai in un lungo pianto. Nessuna delle parole che mi
dissero in quel momento mi sfiorò, e nemmeno l’abbracciò che Diocleziano mi
diede riuscì ad attenuare il gelo che avevo dentro. Almeno, i miei
accompagnatore furono gentili: non mi fecero sentire un peso, e accettarono
quando gli chiesi di tornare di nuovo nella cabina.
Nei giorni successivi, rimasi quasi
sempre lì dentro, al buio, persa nella mia solitudine. Ebbi giusto qualche
contatto con gli altri, in occasione dei pasti. Scoprii allora alcune cose: per
esempio, che dopo essere svenuta ero rimasta senza sensi per oltre dodici ore.
In quel lasso di tempo, Petronilla e Diocleziano erano riusciti a sfuggire ai
posti di blocco e alle pattuglie cambiando macchina più volte. Alla fine erano
riusciti a imbarcarsi sulla nave di Tarquinio: a quel punto erano solo
scivolati verso il largo senza dare nell’occhio, finché non erano usciti dalle
acque territoriali italiane, il confine che voleva dire libertà.
Scoprii anche che tutti e tre i miei
accompagnatori erano parte di un’organizzazione di dissidenti politici in
esilio volontario in Spagna, che tra le sue attività aiutava anche nuovi
oppositori a fuggire. Appresi che anche Scipione ne faceva parte, il che mi
abbatté ancor di più: probabilmente sarebbe stato in Spagna da un pezzo, se non
fosse stato per me. È per causa mia, quindi, se Scipione è morto, e anche a
distanza di tanto tempo mi sento terribilmente in colpa.
In quei giorni, però, andava anche
peggio. Passai l’intero viaggio come una zombie, e anche quando sbarcammo in
Spagna non cambiò nulla. Trascorsi mesi a vegetare nella sede
dell’organizzazione, incapace di far altro che mangiare e dormire, senza quasi
il coraggio di parlare.
A un certo punto, cominciai a pensare
che sarei rimasta in quello stato per tutto il resto della mia vita. Forse
sarebbe stato davvero così, se un giorno lo psicologo della struttura non
avesse deciso di dare una svolta alla situazione. In realtà non fece poi molto:
si limitò ad aprire le mie valigie – che avevo dimenticato in un angolo al mio
arrivo – e trovò una foto di me e Scipione insieme, stampata su un foglio
digitale a led. Quando me la mostrò, il dolore fu quello di un pugno in faccia.
Proprio in quel momento, però, ripensai davvero a lui per la prima volta dalla
sera della sua morte. A tornarmi in mente furono proprio le sue ultime parole,
quelle che mi esortavano ad andare avanti.
«Lo farò. Lo farò, amore mio.»
singhiozzai in quel momento, mentre il torpore cominciava lentamente ad
abbandonarmi.
Sono passati oltre vent’anni da quel
momento, e io nel frattempo ho ritrovato la mia piena vitalità. È stata lunga e
dura, ma alla fine ce l’ho fatta, mi sono ripresa. Sì, è vero, ripensando alla
tragedia di quel giorno la tristezza ritorna: purtroppo è un trauma che mi
porterò dietro per tutta la vita. A parte questo, però, posso dirmi mediamente
felice. Ho un lavoro che mi piace, sto con Esteban, un compagno fantastico, e
tra pochi giorni sarò ancora più felice.
Certo, qualcuno f potrebbe obiettare
che se fossi rimasta in Italia a quest’ora avrei una ventina di figli, tra cui
i più grandi già adulti. Non posso negarlo, ma non sarebbe stata la stessa
cosa. Forse sono una persona cattiva, ma penso che questo mio primogenito sarà
superiore in tutto e per tutto a quell’ipotetica marmaglia. Questo perché non è
un figlio dell’obbligo, come la maggior parte di quelli che nasce in Italia:
quello che verrà al mondo tra poco è figlio dell’amore, quello che mi lega a Esteban.
Io e lui lo abbiamo voluto fortemente e lo abbiamo concepito convinti, senza
alcuna imposizione.
Ed è proprio per questo motivo che
alla fine ho preso una decisione – che anche Esteban ha sposato con entusiasmo.
Da quando ho aperto gli occhi, in quel fatale ventidue settembre, su quanto i
concetti come la grandezza dell’Italia o il ritorno ai fasti dell’Impero Romano
fossero sbagliati, ho cominciato automaticamente a odiare i nomi latini con cui
sono battezzati tutti quelli della mia generazione. Ho sempre pensato quindi
che a mio figlio avrei dato un nome diverso, magari spagnolo. Tuttavia, alla
fine ho cambiato idea, in parte quasi per una sorta di vendetta, ma soprattutto
per una questione d’affetto. Un bambino concepito con amore e libertà non
poteva che chiamarsi Scipione, come la persona senza cui io non sarei nemmeno
qui, e a cui penserò per sempre con infinito affetto.
Bravissimo. complimenti Mattia! :)
RispondiEliminaGrazie mille anche di qua :D !
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